Figlie uniche, donne di oggi

Solitudini, necessità di carezze, di abbracci, di slanci che superino gli egoismi, le peculiarità del carattere e dei destini individuali. Così si può introdurre in prima battuta “Figlie uniche” (Edizioni Iride-Rubbettino), romanzo della giornalista Claudia Marin. Costanza, che ne è la protagonista, narra la personale necessità di scrutare dentro se stessa, libera dai fantasmi del passato e dalle complicazioni imposte dalla sua mente perennemente alla ricerca di una perfezione che, nel momento in cui sembra raggiungibile, si sposta di un ulteriore centimetro e le sfugge…

Una storia che parla molto anche di questioni generazionali, a partire dal rapporto di Costanza con sua madre, Celeste, concentrata unicamente su se stessa, sul suo passato difficile superato con una saldezza mentale quasi sovrumana, e sul suo lavoro di pittrice di successo. Costanza avrebbe tutto per essere altrettanto contenta di se stessa: la professione medica, il benessere finanziario, un marito devoto sempre presente nei momenti in cui c’è bisogno di lui. Ma il confronto, illogico ma ineluttabile, con la sua geniale e sfolgorante madre, la condiziona, la limita, la fa vivere con il freno a mano delle incertezze costantemente inserito.

Lo specchio è uno dei simboli più rilevanti del romanzo. Uno specchio allo stesso lineare e stratificato, complesso, a livelli multipli, sovrapposti e contrapposti. Riflette un’immagine semplice, immediata, e al tempo stesso simbolica e metaforica. Sofia, la figlia di Costanza, è l’immagine della madre ma è al tempo stesso una proiezione anche di Celeste, sua nonna. È una sorta di ponte tibetano, estremamente complicato da attraversare, percorso da scosse e venti giovanili, da energie e cupezze, da intelligenza e da ingenuità. Grazie a questo ponte, Costanza e Celeste troveranno modo di avvicinarsi, gradualmente, esitanti, ognuna con il suo passo diversissimo, discordante, ognuna con i suoi testardissimi orgogli, con una sfida che volta dopo volta si rinnova.

Questo romanzo contiene un microcosmo femminile. Un universo che è assolutamente intimo, fatto di gesti e di pensieri, di confessioni aspre e di desideri di dolcezza. Lo specchio a cui si è fatto cenno è il romanzo stesso. Una superficie in cui tre volti si sovrappongono ma in cui ogni lettrice (ma in fondo anche ogni lettore) può riconoscersi trovando qualcosa di sé, del suo presente e del suo passato, della difficoltà, grande, vitale, a ritagliarsi uno spazio autonomo nel mondo, in quello familiare e in quello esterno. Una dimensione in cui potersi esprimere per ciò che realmente si è e si vuole.

La malattia irrompe nella trama mettendo ulteriormente a nudo caratteri e rapporti personali. Il romanzo spazia tra presente e passato con un costante gioco di rimandi che a sua volta ricalca le rifrazioni a cui si è fatto riferimento: i volti delle tre donne, delle loro tre generazioni e personalità, si scontrano, si respingono, si accostano come in un bacio finalmente tenero, senza orgogli, per poi respingersi e cercarsi di nuovo. I tre personaggi principali del romanzo sono distinti, diversi, in eterno conflitto, eppure, nel profondo, non hanno misura, non hanno senso e non hanno amore, se non una nell’altra e per l’altra.

Il finale del romanzo, coerentemente aperto, offrirà un punto di vista per cogliere allo stesso tempo le singole parti e la figura d’insieme. Lasciando però spazio ad ulteriori punti visuali, ad altre ottiche, tra cui, determinante, quella del lettore, chiamato non solo a scegliere un proprio personale punto di osservazione ma anche ad entrare in prima persona all’interno della cornice, portando con sé le proprie paure e i propri desideri più autentici, le proprie, irrinunciabili, unicità.

Una serie di caratteristiche che lo rendono un ottimo romanzo, storico ma anche fortemente attuale: storie di vita e di donne che, ora come allora, si confrontano con sé stesse e con un mondo di affetti e relazioni in continua trasformazione. 

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