Diversità e(‘) inclusione

Un talk on-line su diversity e inclusione nel mondo del lavoro è stato uno dei recenti principali appuntamenti del ciclo “A Gentle Manifesto” dell’Associazione Italiacamp.

Introdotto da Serena Scarpello, presidente dell’Associazione Italiacamp, ho avuto il piacere di moderare un dibattito che ha avuto come protagoniste Marilena Ferri, People & Culture and Legal Director ManpowerGroup Italia; Daisy Osakue, lanciatrice del disco professionista e finalista Olimpica a Tokyo 2020; Claudia Vaccarone, Inclusion Strategy Manager EMEA Netflix…

Quali sono i relai ostacoli all’integrazione di diversità capaci di portare valore aggiunto umano e professionale? In che termini questo potenziale va valorizzato attraverso l’inclusione? Spazio ai commenti di chi ha animato il confronto con tante proposte interessanti e utili, a partire da Serena Scarpello: “andare oltre ogni pregiudizio, oltre ogni stereotipo, partendo da un bilancio di questi due anni di pandemia che hanno portato degli effetti e delle conseguenze importanti sul mercato del lavoro, e del lavoro femminile in particolare”, portando avanti il valore dell’inclusione sociale che da più di dieci anni caratterizza il lavoro dell’Associazione Italiacamp. Negli ultimi giorni al nostro immaginario si sono aggiunte anche le immagini delle donne ucraine: donne che stanno scappando dal loro Paese per mettersi a sicuro e per mettere al sicuro i loro bambini, ma anche donne che mancano al tavolo dei negoziati”.

Marilena Ferri ha invece offerto il contributo dell’esperienza del gruppo Manpower che in Italia conta una percentuale di impiego femminile del 76%. “ManpowerGroup ha nel suo DNA il tema del lavoro femminile”: l’azienda nasce dopo la seconda guerra mondiale per ricollocare le donne che durante il conflitto bellico avevano sostituito gli uomini nelle attività produttive. “Una presenza così importante di donne in azienda è sicuramente un dato importante, e in Italia anche il board ManpowerGroup è composto per il 50% da donne. Tuttavia è necessaria anche questa riflessione, da un certo punto di vista è un dato sproporzionato: la percentuale alta nella presenza femminile dipende anche dal fatto che svolgiamo un lavoro che è molto di ascolto, relazione, comunicazione che purtroppo appartiene allo stereotipo di «cose da donne». Uno stereotipo che non fa bene né agli uomini né alle donne. Già da qui si capisce che qualcosa va cambiato. Oggi sembriamo assistere a un effetto rimbalzo, la “shecovery”, la ripresa del lavoro delle donne anche se uno dei punti principali rimane “lavorare sulla corretta ripartizione del lavoro familiare”. È significativo in questo senso “come settori tipicamente femminili come ad esempio l’hospitality hanno perso posti di lavoro, mentre ne hanno recuperati altri classicamente maschili come il mondo dell’informatica. Per questo motivo cerchiamo di formare le donne sulle STEM”. ManpowerGroup negli anni ha abbracciato una cultura della selezione sempre più data-driven, “perché più si è data-driven, più diventa difficile avere certi tipi di bias”.

Dal mercato del lavoro, al mondo dello sport con la testimonianza di Daisy Osakue, lanciatrice del disco professionista con un Master in Comunicazione alla Angelo State University in Texas, ottenuto dopo la laurea in criminologia. La finalista Olimpica a Tokyo 2020 ha parlato del rapporto tra pubblico e stereotipi: “Sono donna, ma non vuol dire che sono debole. Sono di colore, ma non vuol dire che io sia una velocista. Sono alta, ma non vuol dire che debba fare pallavolo. Non volendo, dei bias li abbiamo tutti, anche in modo naturale, non malizioso perché associamo determinate immagini a determinati ruoli, valori, ecc. Ci sorprende vedere qualcosa di diverso”. Bias che tornano nel rapporto con i tifosi: “Con i tifosi quando va tutto bene, va tutto bene. Quando invece le cose vanno male, allora arrivano le critiche stereotipate: sei donna, non hai le qualità, ovviamente non è andata bene perché doveva fare velocità, è andata male perché non ha la forma giusta per il lancio del peso…quando invece è solo stata una giornata no.” 

Sul tema dei media e degli audiovisivi è intervenuta Claudia Vaccarone, Inclusion Strategy Manager EMEA Netflix: “In Netflix le donne rappresentano il 51,7% dello staff globale, quindi siamo ufficialmente paritari. La varietà di profili, a vari livelli di dirigenza, di leadership, di contributi, in tutti i dipartimenti e dietro la macchina da presa permette di raccontare storie che sono sempre più diverse e connesse al pubblico. A Netflix abbiamo infatti la convinzione che le grandi storie siano capaci di intrattenere, ma che possano anche sfidare i pregiudizi e facilitare la comprensione e l’empatia, perché quando tramite i contenuti si scoprono realtà nuove, si capiscono e si conoscono realtà nuove, si ha una visione diversa delle altre comunità e delle altre persone.” Uno sguardo più ampio è utile a capire come viene affrontato questo tema nel mercato più in generale dei media: “L’industria audiovisiva è ancora piuttosto maschile e piuttosto chiusa. C’è un dato del 2021 dell’osservatorio europeo dell’audiovisivo pubblicato a novembre che mette in evidenza un gender gap ancora considerevole: il 23% dei film prodotti in Europa è stato diretto da donne, le autrici sono il 27%, le compositrici il 9%. In Italia c’è uno studio recente che conferma questi dati. Ciò fa sì che sullo schermo ci siano meno storie di donne, ruoli meno autentici, meno moderni.” Per Claudia Vaccarone “Per colmare queste differenze ci vuole molta intenzionalità, dar spazio ai talenti femminili esistenti, cercare nuovi profili, andare a formare le pipeline di talenti per il futuro creando le opportunità anche per chi non le ha mai avute tradizionalmente. In questo senso in Italia ci sono iniziative interessanti per dare voce anche alla multiculturalità, come Anica Academy, a cui partecipa anche Netflix che risponde alla crescente domanda di profili qualificati espressa dall’industria audiovisiva.”

Insomma tanti propositi, tante idee per un obiettivo unico e comune: fare di diversità e inclusion le assi portanti di un valore aggiunto non ideologico, ma reale e produttivo. 

 

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