Partiamo da una buona news. Perché si, ce ne sono, anche abbastanza. E parliamo, in modo semplice ed immediato, di attualità economica.
Nelle micro imprese, che rappresentano oltre il 95% delle realtà produttive italiane, la creazione di posti di lavoro è influenzata anche dall’ età dell’imprenditore e dell’ impresa.
C’è anche qui, dunque, un fattore generazionale.
E molto interessante, se consideriamo l’influenza positiva delle nuove generazioni sul lavoro. Nel 2015 le aziende guidate da imprenditori giovani hanno aumentato i posti di lavoro più di quelle gestite da imprenditori anziani (è il rapporto annuale dell’Istat a dichiararlo) soprattutto nel caso delle imprese più “fresche”, con meno di cinque anni di età, dei settori manifatturieri ad alta tecnologia (in ambito farmaceutico ed elettronico/elettromedicale ben 30% in più di posizioni lavorative create).
Il dato economico è incoraggiante, quantomeno interessante, riservandoci ogni approfondimento e riflessione.
Ci sono anche aspetti di ordine sociale da considerare sul fronte generazionale. Da un lato, emerge chiaramente la forza propulsiva alla base di questo dato economico, ovvero quello di una fascia popolazione che per ragioni come la formazione moderna e solida o la spinta all’innovazione – che caratterizzano (o dovrebbero caratterizzare) un giovane proprio in quanto tale – conducono a traguardi di peso, tanto per ciascuno dei protagonisti, quanto per la collettività. C’è un’altra caratteristica di questo dato che porta al nostro secondo ordine di considerazioni: nelle giovani realtà protagoniste di questi nuovi positivi numeri c’è, infatti, una significativa connotazione familiare. Cosa significa questo?
Significa che il risultato di cui parliamo può rappresentare la conseguenza di un passaggio generazionale che, dice sempre l’Istat, “potrebbe avere portato miglioramenti in termini di governance, strategie o, più in generale, propensione alla crescita dell’ impresa”.
E veniamo, così, alla famiglia. Nucleo e prima protagonista del confronto generazionale. È qui, in quella che proprio la scienza sociale chiama “prima agenzia di socializzazione”, che si forma quell’universo di valori condivisi, consapevolezza e – nel senso più intimo del termine – cultura, che porterà l’individuo tanto ad agire e pensare come tale quanto a sentirsi parte di un tutto. È qui, nella famiglia, che oggi si giocano (e devono giocarsi) le “partite valoriali” più importanti, è da qui che può consolidarsi e rinnovarsi una cultura collettiva, giungendo a risultati di diffuso interesse, sul piano sociale ed economico. Parole e dati che abbiamo appena condiviso stanno a testimoniarlo.
Allo stesso tempo, però, dobbiamo prestare attenzione ad un altro importante aspetto:
“La staffetta generazionale tra giovani e anziani sul lavoro non è facilmente realizzabile”. Infatti, è sempre l’Istat a dichiararlo, “il confronto tra i 15-34enni occupati da non più di tre anni ed al primo lavoro con le persone con più di 54 anni andate in pensione negli ultimi tre anni fa emergere la difficile sostituibilità posto per posto di giovani e anziani”. E “mentre i giovani entrano soprattutto nei servizi privati (319 mila nei comparti del commercio, alberghi e ristoranti e servizi alle imprese, a fronte dei 130mila in uscita), in altri settori le uscite non sono rimpiazzate dalle entrate (125mila escono da pubblica amministrazione e istruzione contro 37mila entrate)”.
Un aspetto su cui lavorare, ancora una volta ed il più possibile, insieme, a partire da rinnovate politiche a favore dell’attività d’impresa.
La questione inizia (per non dire, continua) a farsi impellente.
Specie se guardiamo alla presenza di “Neet” (“Not engaged in Education, Emplyyment or Training”) nel nostro tessuto sociale. Scopriamo, infatti, che in Italia nel 2015 sono più di 2,3 milioni i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione (Neet, appunto) di cui tre su quattro vorrebbero lavorare”. Neet che sono aumentati di “oltre mezzo milione sul 2008 ma diminuiscono di 64mila unità nell’ ultimo anno (-2,7%)” e che la condizione di Neet “è più diffusa tra gli stranieri (35,4%), nel Mezzogiorno (35,3%) e tra le donne (27,1%), specie se madri (64,9%)”.
Neet è un acronimo entrato purtroppo nell’attuale dizionario “generazionale” e non aiuta a guardare con ottimismo al futuro, comprensibilmente.
A giovani e “grandi” spetta, però, il compito di cancellarlo da questo vocabolario. Dovrebbe essere un desiderio comune, ma comunque si tratta quantomeno di un’esigenza comune: il futuro che vogliamo, per noi e per i nostri figli, è lo stesso. Vogliamo, tutti, che sia il migliore possibile, nessuno vuole “generazioni perdute”: un patto generazionale è quello che serve per realizzare un’opera d’interesse collettivo.
Ai senior il compito di realizzarne la cornice, dai confini solidi e ben delineati, con responsabilità. Per il mondo che vivono e che vivranno.
Ai giovani, il compito di riempire questa cornice, con coraggio. Per il mondo che vivono e che, soprattutto loro, vivranno.